mercoledì 18 dicembre 2013

World Press Photo 2013 - Forte di Bard


Domenica di dicembre, freddo pungente e cielo limpido, vacanza con gli amici. Dopo la mattinata ai mercatini di Natale di Aosta e il pranzo a base di polenta e carbonada, decidiamo di fermarci al Forte di Bard per la mostra World Press Photo 2013. Il forte è bellissimo, i nostri animi sono scaldati dal vino e dall'allegria della compagnia. Ridiamo a caso per tutta la salita al forte, passiamo da un ascensore all'altro (beh, a piedi non ce l'avremmo fatta, magari ne riparliamo questa primavera) con la stupidera in corpo e gli occhi che sorridono. Prendiamo i biglietti, cerchiamo l'ingresso della mostra, entriamo e bum. Un colpo allo stomaco.
 
Non saprei come altrimenti descrivere questa mostra. Un colpo allo stomaco, al cuore, al cervello. Si tratta di una mostra sull'uomo, sull'orrore di essere uomini e sul dolore immane del mondo. La prima sala è interamente dedicata al conflitto in Siria e si apre con una delle foto vincitrici del premio: il viso di una donna, celato tra le mani, di cui si vedono solo gli occhi, pieni di lacrime e di dolore. Gli occhi sono una costante in tutta la mostra. Occhi di bambini, donne, adulti, anziani, tutti uniti dalla stessa sofferenza e dallo stupore, a volte, di fronte a tale sofferenza. Occhi increduli e terrorizzati. Occhi senza futuro.
 
Questi occhi, questi visi, queste espressioni di sofferenza sono tutte uguali, come se il dolore unisse il mondo. Nel guardare queste foto, ti rendi conto che non c'è differenza tra l'uomo siriano che piange la morte del fratello e il giovane nero di New York che ha appena ucciso il padre. Sui loro volti c'è la stessa espressione straziata. Così come non c'è differenza tra lo sguardo di disperazione di una negoziante spagnola il cui negozio è stato distrutto durante una manifestazione di protesta e quello di una bimba siriana che piange la morte del padre. Il dolore ci unisce tutti. Il dolore ci rende tutti uguali, indipendentemente da ciò che viviamo.
 
Io non sono una persona che si commuove facilmente, ma giuro, questa mostra mi ha fatto venire il groppo in gola. Le sale si susseguono raccontando storie difficili, le prostitute nigerane che si vendono ai margini di una strada romana, su un materasso sporco in mezzo ai rifiuti, la donna pakistana sfregiata dall'acido insieme alla sua bimba, la donna che cura il marito malato di alzeihmer, i giovani delle favelas brasiliane e quelli delle gang de El Salvador e così via, in un crescendo che ti porta a pensare di non poterne più. Ma quando credi davvero di non riuscire a sopportare più altro orrore, ecco un barlume di speranza: la foto di una giovane donna, nel mezzo di un'infinita distesa di rifiuti di una discarica africana, seduta a leggere un libro buttato via da chissà chi. Il volto leggermente inclinato, gli occhi assorti e un sorriso mezzo accennato. Quel sorriso timido mi ha ricordato la bellezza della vita nel mezzo di un mondo di orrore. La volontà di aggrapparsi a qualcosa per sopravvivere al brutto del mondo.
 
Per fortuna, a far da contraltare a questi reportage di dolore, ci sono bellissime immagini di animali, splendenti nei loro colori, quasi a dimostrarci la superiorità e la perfezione del loro mondo. Un mondo perfetto finché non viene sporcato dall'uomo, che quegli animali li fa soffrire, li uccide e li umilia, come nel caso delle scimmiette ammaestrate di Giava. Ma questa pausa nella natura è brevissima, si passa subito alla sala dedicata ai ritratti. E si torna a guardare in faccia le persone. Persone dai volti stanchi, seri, assenti, addolorati. Donne che non si vedono, perché nascoste dal velo, che le rende quasi un tutt'uno con la tappezzeria che fa da sfondo. Persone deformi, che l'occhio del fotografo ha trasformato in sculture. Lo sguardo di sfida del torero spagnolo che ha perso un occhio. Il visto duro della prostituta danese. Quello dolce e lievemente allucinato della ragazza americana che tiene in braccio una bambola.

Ma sapete cosa mi ha colpito di più di questa mostra? Il silenzio. Le sale erano piene di gente, ma quasi nessuno parlava e quei pochi lo facevano sottovoce. C'erano coppie, gruppi di amici, ma nessuno commentava le foto. Quasi avessero paura di mancare di rispetto alle persone ritratte in foto. Oppure, molto più probabilmente, come se non riuscissero a trovare le parole davanti a quell'orrore col quale erano costretti a confrontarsi. Del resto, cosa si può dire di fronte a tutto ciò? Credo che l'unica cosa che si possa dire, anche a costo di sembrare banali, è che tutto questo serve a farci capire l'immensa, straordinaria fortuna del nostro essere persone normali, con una vita di alti e bassi, di dolori ma anche di immense felicità. E di infinite possibilità. Il mio obiettivo sarà cercare di non scordarlo mai. Credo sia il miglior modo di rendere giustizia a tanto dolore.

4 commenti:

  1. Praticamente impossibile descrivere meglio con le sole parole.

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  2. Queste sono riflessioni che, hai ragione, non dovremmo mai smettere di tenere a mente. Per quanto possa essere naturale pensare questo, molte persone non si rendono conto di quanto abbiamo.
    Ti mando un bacione

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  3. Che bella descrizione, Queen. Dovresti recensire le mostre sulle riviste di arte e fotografia. Il finale, poi, mi è piaciuto un sacco, con la storia del silenzio nelle sale. Ed è proprio vero: siamo nati nella parte "giusta" del mondo e non ce lo ricordiamo mai.

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