Ieri sera ho visto un documentario che mi ha cambiato la vita. Anzi, mi correggo, ho visto un documentario che spero mi cambi la vita. Anzi, mi correggo ancora, ho visto un documentario che spero mi costringa a cambiare la mia vita. Si tratta di The True Cost, consigliato qualche giorno fa da Gaia Segattini con un'urgenza tale da spingermi a vederlo non appena mi fosse stato possibile.
E così è stato. Appena ho avuto un attimo, sono andata su Netflix e via. Anche se, devo confessarlo, prima di far partire il documentario ho esitato un secondo. Sapevo che sarebbe stata dura, sapevo che mi sarebbero state dette cose che non volevo sentire, sapevo che non avrei più potuto fare finta di niente. Infatti.
Che cos'è The True Cost? Si tratta di un documentario che affronta la tematica della produzione industriale di abiti e dell'impatto che ha sull'ambiente e, soprattutto, sulla vita delle persone che tali abiti li producono. E' un documentario che analizza tutta la filiera produttiva, la produzione dei materiali, la realizzazione dei vestiti, l'acquisto compulsivo e le montagne di rifiuti che ne derivano, mettendo in luce una realtà drammatica: migliaia di persone muoiono e intere regioni del mondo vengono inquinate affinché noi possiamo pagare una maglietta dieci euro.
Il documentario è spietato non solo perché mette in luce la triste realtà in cui vivono i lavoratori in paesi come il Bangladesh e la Cambogia o perché evidenzia come la terra venga distrutta per produrre sempre di più. Il documentario è spietato soprattutto perché parla di noi consumatori e a noi consumatori, sbattendoci in faccia senza pietà il nostro comportamento perverso. Quello che ci spinge a voler pagare sempre meno i vestiti che acquistiamo per poterne comperare sempre di più, finendo per riempire i nostri armadi di cose che non indossiamo e buttiamo via senza pietà.
Alla fine del documentario mi sono sentita una stronza. E una stupida. Non so se più stupida o più stronza, che vi devo dire. Perché secoli fa ho letto No Logo di Naomi Klein, ma dopo qualche tempo me ne sono bellamente scordata. Perché ero rimasta scioccata alla notizia dei mille morti di Rama Plaza, in Bangladesh, ma poi ho continuato a fare come se niente fosse. Perché sapevo e ho fatto finta di non vedere. Perché? Perché mi conveniva, ovviamente.
Se aprite il mio armadio, più o meno la metà delle cose che vi troverete sono di catene low cost, H&M in testa. Perché? Perché H&M mi permette di acquistare più cose, allo stesso prezzo. E che sia chiaro, non è perché non posso permettermi di acquistare altro. Ho un budget piuttosto limitato per gli acquisti, ma mi permetterebbe comunque di comperare cose più costose: è solo che ciò vorrebbe dire comperarne di meno e con maggiore responsabilità. Addio acquisto d'impulso.
Sabato pomeriggio, il giorno del mio compleanno, ho comperato un maglione, un cardigan e una giacca elegante - obiettivamente di buona fattura - spendendo 59 euro, sfido qualsiasi marchio a competere. M avevo veramente bisogno di quelle cose? Ovviamente no.
Di quante cose, tra quelle che ho nell'armadio, ho veramente bisogno? Facciamo della metà? Dai, teniamoci alti. Del resto, io lavoro da casa, vivo in jeans e maglione e molte delle cose che acquisto le indosso pochissime volte per stagione. E allora perché le compro? Per gratificazione. Per divertimento. Perché le ho viste e le voglio anch'io. Perché si vive una volta sola, dai. Perché "già la vita fa schifo, se devo anche privarmi dei vestiti". Perché quando esco non posso mica mettermi sempre la stessa cosa, no?
Ma vi giuro che ieri sera, dopo aver visto quel documentario ed essermi commossa, quando ho guardato nell'armadio e ho visto più volte la scritta made in Bangladesh, m'è venuta la nausea. Non mi ero mai sentita così prima e spero che questo mi aiuti a cambiare il mio comportamento. Faccio scelte consapevoli nell'alimentazione, nella cura di me stessa, perché cacchio non posso farlo anche nei vestiti? Sono una persona così debole? E no, eh.
Basta, si cambia. E lo dico qui, ad alta voce, per prendere un impegno ancora più grande. Ecco cosa farò.
- darò via tutte le cose che tengo nell'armadio da secoli, senza più usarle. Questa tendenza all'accumulo l'ho presa da mia mamma, ma lei poi ricicla ogni cosa (giusto qualche giorno fa mi sono seduta su un cuscino rifasciato con la stoffa di una mia vecchia borsa), io invece mi limito a tenere le cose ad occupare spazio.
- comprerò meno e in maniera più consapevole. Cercherò di informarmi e renderò partecipi anche voi di questo mio percorso, se vi va.
- smetterò di paragonare i prezzi di qualsiasi cosa a quelli di H&M (brutti stronzi, mi ci avete portato voi a 'sto modo di ragionare delle balle). Venerdì pomeriggio, cucendo con mia mamma, ho capito quanto sia faticoso: come posso ancora pensare che sia giusto pagare una camicetta o una borsa meno di 20 euro?
- imparerò a cucire. Mi sembra la cosa più difficile del mondo, ma ci voglio provare.
- infine, e qui viene il difficile, cambierò il mio modo di rapportarmi all'acquisto di vestiti. Basta seguire l'impulso, la voglia di farsi una coccola, il bisogno di avere una cosa tanto per averla. E qui, ragazzi, ce ne vuole eh.
Mi piacerebbe anche scrivere che comprerò cose usate, peccato che tutti i vestiti vintage mi facciano assomigliare a mia nonna vestita male o, nella migliore delle ipotesi, a una che si è buttata nel cassonetto della Caritas e ha messo le prime cose che son venute fuori. Sarebbe figo farlo, ma che vi devo dire, il vintage non fa per me. Ahimè.
E voi, che mi dite? In che maniera acquistate i vostri vestiti? Siete come me oppure fate acqusti più consapevoli? Se lo fate e avete consigli da darmi, fatemi sapere vi prego!
Se volete saperne di più in proposito, ecco cos'ho trovato in giro.
Il documentario, vi prego guardatelo, è questo: The True Cost.
Gaia Segattini ha scritto due post illuminanti in proposito.
Su You Tube trovate My Green Closet, un canale dedicato alla moda etica e consapevole.
Ho letto di una serie di video realizzati in Cambogia da alcuni blogger norvegesi, ma non ho ancora avuto tempo di vederli. Li trovate qui.
Un post su marchi etici, che devo ancora spulciare per bene.